TRENTO. A poco più di due settimane dalla prima campanella il vecchio tema dello ius scholae è ritornato all’attenzione della politica italiana, se non altro per lo stizzito botta e risposta nella maggioranza tra il vicepremier e leader di Forza Italia Antonio Tajani (“vincolato” al programma di centrodestra ma proiettato verso un “mondo che cambia”) e il capogruppo alla camera di Fratelli d’Italia Tommaso Foti (a insistere sull’assenza di questo punto nel programma e sulla volontà da parte della sinistra di destabilizzare la maggioranza).
Sta di fatto che se lo ius scholae diventasse legge interesserebbe nella nostra provincia ben 9.000 stranieri minorenni (di cui 1.751 in città) che acquisirebbero automaticamente la cittadinanza italiana dopo dieci anni di scuola dell’obbligo.
Un cambiamento importante, quindi, che trova l’accordo di gran parte dei dirigenti degli istituti trentini: «La scuola è una palestra di cittadinanza per tutti gli alunni indipendentemente dalla provenienza – ribadisce Maura Zini, presidente della sezione trentina dell’associazione nazionale dirigenti pubblici e preside presso l’Istituto Comprensivo di Taio -. Penso anche all’investimento che a volte le famiglie fanno sulla scuola. La prospettiva di cittadinanza potrebbe essere un elemento in più che motiva la partecipazione attiva: dall’uso della lingua all’aspetto relazionale».
Dello stesso parere anche Paola Pasqualin, dirigente dell’Istituto comprensivo Trento 5: «La questione della cittadinanza può essere un fattore motivazionale per lo studente in grado di cambiare sia il modo in cui questo viene a scuola sia come i genitori lo mandano. Un’idea poi potrebbe essere quella di acquisire con l’esame di stato la cittadinanza».
Questione di possibilità ma anche di diritti per Paola Baratter, dirigente del liceo Prati: «Non posso che essere d’accordo con un diritto di questo tipo. Non c’è nessun motivo perché sussistano delle differenziazioni tra i ragazzi. Chi fa un percorso scolastico deve essere valorizzato». «I neo arrivati nella scuola- spiega anche Tiziana Chemotti, preside dell’Istituto Comprensivo Villa Lagarina – sono diminuiti negli anni. Ora sono gran parte stranieri di seconda generazione nati in Italia. Una delle questioni su cui riflettere sarà proprio quello del titolo a cui legare lo ius scholae, ossia all’obbligo scolastico o ad un titolo più elevato. Poi c’è la questione dell’attività. Io non relegherei la cittadinanza alla sola presenza, bisogna che lo studente sia pro-attivo e che ci sia un coinvolgimento delle famiglie ed extrascolastico».
«È un tema che mi interessa moltissimo – ammette Chiara Ghetta, dirigente dell’Istituto Comprensivo Trento 6 – Sono convinta che l’integrazione attraversi dei passaggi culturali. Si tratta di trasmettere quella parte di relazione che da rilievo a elementi di valore, e che è importante anche quando parliamo di i minori non accompagnati. Sarebbe interessante ragionare in modo serio su questo tema».
«Guardiamo con grande attenzione e simpatia a qualsiasi processo di integrazione della parte attiva della nostra comunità – spiega anche Marco Felicetti, dirigente dell’Istituto La Rosa Bianca – si tratta di dare dignità ai ragazzi che partecipano attivamente alla comunità».
Pareri positivi infine anche da Daniela Simoncelli, dirigente del Liceo artistico Vittoria: «La scuola, a prescindere dalla politica, ha già il compito importante di accogliere tutti indipendentemente dalla loro provenienza. È giusto che questo sia un luogo delle differenze che vengono valorizzate».
Diverso il parere della vicepresidente e assessora provinciale all’istruzione e cultura Francesca Gerosa.
«Ritengo che quando si parla di cittadinanza italiana questa debba essere voluta e sentita, quindi non qualcosa di automatico. Essere italiani significa infatti riconoscere i valori e le tradizioni della nostra nazione e del nostro popolo, e farle proprie. Insomma appartenere ad un popolo con una cittadinanza sentita nel profondo», risponde.
«Quando parliamo di ragazzi – continua la vicepresidente – è indubbio che in un percorso scolastico essi si trovino per lungo tempo a convivere e socializzare con i nostri figli, con i quali fanno anche attività extra scolastiche, culturali e sportive. Se però pensiamo che il percorso della scuola dell’obbligo per i ragazzi italiani, che va dalla prima elementare alla terza media, dura dieci anni, ci rendiamo conto facilmente che è esattamente lo stesso tempo richiesto dalla normativa attuale per poter richiedere la cittadinanza».
Da qui il ragionamento della vicepresidente che quello dello ius scholae sia in realtà un falso problema: «I ragazzi e le ragazze quindi, nel momento in cui hanno concluso il percorso dell’obbligo, possono già oggi ottenere la cittadinanza attraverso la propria famiglia, avendo alle spalle 10 anni di residenza legale. Questo per dire che ci troviamo di fatto di fronte ad un “non tema”. La proposta della sinistra rappresenta quindi, a mio avviso, solo un tentativo di strumentalizzazione dell’argomento su una questione che non ha alcuna vera motivazione e soprattutto necessità».
A questo, secondo la vicepresidente, si aggiungerebbero anche i rischi di una “mossa” che andrebbe proprio a danno di famiglie e studenti stranieri: «La proposta della sinistra rischia di creare un cortocircuito che potrebbe “spaccare” dall’interno le famiglie. Infatti se noi dessimo automaticamente la cittadinanza a ogni ragazza o ragazzo straniero che ha frequentato la scuola, finiremmo per avere dei minori con la cittadinanza italiana, magari neanche voluta ma ottenuta d’ufficio, e dei genitori con la cittadinanza di origine. Sempre che l’intento della sinistra non sia quello di fare ottenere prima la cittadinanza agli stranieri passando da quella dei propri figli».
Da qui il ritorno al tema importante di una reale adesione da parte dei cittadini stranieri ai valori e alle tradizioni del popolo italiano, in assenza della quale, secondo la vicepresidente, la cittadinanza rischia di diventare un involucro privo di significato: «Considerando peraltro che in Italia c’è il maggior numero di acquisizioni che nel resto d’Europa, e anche su questo dovremmo interrogarci, credo sia importante mettere l’attenzione sul come e sul quando dare la cittadinanza, sottolineando che l’integrazione non può passare da un nostro appiattimento verso le altre culture, ma nel riconoscimento totale senza condizioni della nostra. La cittadinanza italiana è una cosa seria: non il mezzo per ottenere più servizi, ma qualcosa in cui credere e riconoscersi profondamente».