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Il mistero dell’Everest e il nuovo ritrovamento riemerso dai ghiacci – Montagna


TRENTO. L’ultima grande conquista dell’uomo. L’ultimo traguardo dell’età d’oro dell’esplorazione. «The Wildest Dream: Conquest of Everest», nel titolo del documentario che ha provato a ricostruire ciò che può essere accaduto sulla più alta montagna del mondo, l’8 giugno del 1924, a George Mallory e a Andrew Irvine, scomparsi mentre erano diretti alla vetta.

Dopo il ritrovamento del corpo del primo, nel 1999, il ghiaccio dell’Everest ha restituito uno scarpone del secondo.

Ne hanno parlato nei giorni scorsi i media di tutto il mondo: sul calzino, conservato per cent’anni, nell’etichetta rossa spiccano il nome Irvine e le iniziali A. C. (Alpine Club?).

Informata la pronipote, autrice di una biografia dell’alpinista inglese, il ritrovamento ha riacceso le speranze di poter risolvere quello che rimane probabilmente il più grande mistero dell’alpinismo: Mallory ed Irvine hanno raggiunto la vetta dell’Everest nel 1924, 29 anni prima di Edmund Hillary e Tenzing Norgay? Sono caduti durante la discesa? O sono morti mentre salivano, forse cercando di superare il cosiddetto «secondo gradino», lo sperone che si erge lungo la cresta sotto la cima?

La soluzione potrebbe trovarsi nella macchina fotografica di Irvine, finora mai ritrovata, visto che il punto in cui nel 1933 era stata affiorata la sua piccozza non ha diradato le nebbie che avvolgono nel finale quell’epica ascensione. Il mistero rimane, sebbene in «The Wildest Dream» gli alpinisti Conrad Hanker e Leo Houlding abbiano cercato di replicare la salita di Mallory ed Irvine scalando l’Everest negli stessi giorni della spedizione del 1924, testando anche abiti fatti con i tessuti dell’epoca e scarponi chiodati in pelle, e superando il «secondo gradino» senza scale o corde fisse, come avrebbero potuto farlo i loro illustri predecessori che non disponevano di tessuti e materiali studiati per quelle quote.

«The Wildest Dream» è arrivato sugli schermi nel 2000 dopo il ritrovamento, a circa 8.250 metri, del corpo di Mallory ad opera di Conrad Anker. Negli strati degli indumenti, l’etichetta con il suo nome, la corda ancora legata alla vita, in tasca alcune lettere. Effetti personali, ma non la fotografia della moglie che lo scalatore britannico aveva intenzione di lasciare sulla vetta.

Nel documentario di Anthony Geffen, la posizione del corpo di Mallory, con il viso sul terreno e una gamba fratturata, si potrebbero spiegare con una caduta avvenuta durante la discesa. Ma si tratta sempre di ipotesi.

Cosa accadde quell’8 giugno 1924 è noto solo fino al momento in cui le nubi avvolsero i due scalatori nascondendoli alla vista di chi stava sotto. Mallory ed Irvine, due dei membri di punta della terza spedizione britannica all’Everest, quel giorno lasciarono il campo più avanzato, il sesto, diretti alla vetta. Avevano con loro l’ossigeno supplementare nelle bombole, ma da lì in avanti li attendeva un terreno per lo più ignoto.

Anche se dal tentativo precedente del compagno di spedizione Edward Norton – salito da solo a 8.573 metri – avevano appreso che la parete sopra l’ultimo campo era composta di placche strapiombanti coperte di neve. Una diagonale verso destra li avrebbe portati fino alla base del «primo gradino», un pilastro in una zona rocciosa più scura.

Più in alto, la cresta si alza al «secondo gradino» di roccia, alto una trentina di metri e descritto come la prua di una nave. Non è noto a che ora Mallory ed Irvine lasciarono la tenda.

Tutto ciò che si sa da quel momento si deve al racconto del geologo Noel Odell che, da 7.900 metri, avvistò i due alpinisti mentre salivano in direzione della vetta in un punto non lontano dal «secondo gradino», stimato sopra gli 8.450 metri di quota: «Lontano, su un pendio nevoso che conduceva all’ultimo risalto prima della base della piramide sommitale, intravvidi un minuscolo oggetto in movimento che si avvicinava al pilastro di roccia.

Un secondo minuscolo oggetto lo raggiunse, poi il primo scalò il risalto roccioso. Mentre osservavo attentamente questa drammatica apparizione, le nuvole avvolsero di nuovo la montagna; in realtà, non sono certo di aver visto la seconda figura raggiungere la prima» (nel libro «Everest» di Walt Unsworth, Mursia, 1991). Il primo «ottomila» l’Annapurna I, fu scalato nel 1950 dai francesi Maurice Herzog e Louise Lachenal che il 3 giugno raggiunsero la vetta di 8.091 metri. L’impresa di Mallory ed Irvine rimane comunque straordinaria.



Originale su L’Adige

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